Il demansionamento del lavoratore o dequalifica si verifica nel caso in cui al prestatore di lavoro siano fatte svolgere (in modo non temporaneo o eccezionale) delle mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali è stato assunto, ovvero nel caso in cui si privi lo stesso di tutte o di alcune rilevanti mansioni.
La materia è stata riformata dal c.d. Jobs Act e dai relativi decreti di attuazione, tra cui il Decreto Legislativo del 20 febbraio 2015. Si può dunque effettuare una distinzione tra il “nuovo” demansionamento, che si applica a tutti i lavoratori, anche se assunti dopo il 7 marzo 2015, e la vecchia normativa sul demansionamento.
Indice
La nuova normativa sul demansionamento
La nuova normativa in tema di demansionamento è contenuta nel riformato articolo 2013 del Codice Civile.
Si prevede in primo luogo che il datore di lavoro possa liberamente mutare le mansioni del lavoratore all’interno del medesimo livello di inquadramento contrattuale.
Inoltre, a fronte della necessità di evitare il licenziamento o della necessità di riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro potrà legittimamente far svolgere al prestatore delle attività rientranti nel grado immediatamente inferiore di inquadramento contrattuale. Altre ipotesi di legittima dequalifica potranno essere individuate da parte della contrattazione collettiva, anche di livello aziendale (purchè l’associazione sia maggiormente rappresentativa sul piano nazionale). La stessa legge prevede però che alla dequalifica non potrà in alcun modo conseguire un diverso inquadramento dal punto di vista formale nè una diminuzione della retribuzione, fatta eccezione per quegli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della vecchia attività.
Inquadramento e retribuzione potranno essere modificati esclusivamente a seguito di accordi stipulati davanti alle organizzazioni sindacali, davanti ad una commissione di certificazione o davanti ad una Direzione territoriale del lavoro, ed a patto che le nuove condizioni servano al lavoratore per evitare il licenziamento o per acquisire nuove professionalità o per migliorare la qualità della vita.
Si prevede poi che il trasferimento ad una diversa unità produttiva possa avvenire solamente in presenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
I patti che non rientrino nelle eccezioni di cui sopra sono nulli.
Da ultimo, in caso di svolgimento di mansioni superiori, il lavoratore deve essere retribuito in modo corrispondente alla nuova attività svolta. L’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del prestatore di lavoro, decorsi sei mesi o, nel caso in cui la contrattazione abbia previsto un termine massimo di durata, al suo decorso.
La vecchia normativa sul demansionamento
Sino alla suddetta riforma del 2015, si poteva dire che nel nostro ordinamento sussisteva un vero e proprio diritto a non subire una dequalifica da parte del lavoratore (salve le eccezioni che si andranno ad elencare).
A tal riguardo, così disponeva il vecchio articolo 2103 Cod. Civ.: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione alla stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”.
Non era invece previsto il divieto di far svolgere delle mansioni superiori o equivalenti, oppure “accessorie” rispetto a quelle previste nel contratto di assunzione. In tali ultimi casi, tuttavia, doveva essere garantita l’equivalenza della retribuzione, mentre, nel caso in cui si fossero fatte eseguire prestazioni “superiori”, il datore di lavoro doveva riconoscere il corrispondente trattamento economico retributivo e contributivo di cui alla nuova qualifica (tranne nel caso in cui ciò non fosse avvenuto in via meramente temporanea od occasionale).
Si osservi inoltre che la Suprema Corte ha ritenuto che il rifiuto del lavoratore a svolgere mansioni inferiori in modo occasionale o per un periodo meramente transitorio integra un grave inadempimento che può legittimarne il licenziamento da parte del datore di lavoro (Corte di Cassazione, n. 2948 dell’1.03.2001); tale principio potrebbe continuare ad operare anche dopo la riforma.
Sussiste dunque nel nostro ordinamento un divieto di variazione in peius, divieto che si ispira al principio di tutela della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro, la quale pertanto non deve essere “dispersa”.
Secondo la Suprema Corte, anche nel caso in cui una mansione si sia “esaurita” e non sia stata affidata alla esecuzione di altro lavoratore, ugualmente può sussistere un demansionamento – in violazione dell’articolo 2103 Cod. Civ. – ove le mansioni affidate siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 1575 del 26.01.2010). Ogni ipotesi di dequalifica va infatti sempre concordata tra le parti del rapporto di lavoro (nei limitati casi in cui è ammessa). Al riguardo occorrerà vedere se tali principi verranno confermati anche in base alla nuova normativa.
Va poi osservato che la giurisprudenza ante riforma statuiva che il rifiuto al demansionamento non poteva mai giustificare il licenziamento. Insegnava al riguardo la Suprema Corte: “Il demansionamento giammai può essere legittimato dalla volontà di impedire il licenziamento, atteso che mansioni dequalificanti devono essere, ad ogni modo, proposte ed accettate dal lavoratore” (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 21356 del 18.19.2013).
E ancora: “l’art. 2103 c.c., che vieta l’assegnazione a mansioni inferiori, è norma imperativa e, dunque, non può essere derogata”. E poi: “posto che il divieto di abibizione del lavoratore a mansioni inferiori stabilito dall’art. 2103 c.c. non è derogabile neppure su accordo tra le parti, spetta al lavoratore che abbia richiesto l’assegnazione ad un ufficio presso il quale abbia espletato mansioni inferiori a quelle in precedenza svolte, il danno subito, da determinare anche in via equitativa, in base agli elementi desumibili dalla quantità e dalla qualità dell’esperienza lavorativa pregressa, dal tipo di professionalità colpita, dalla durata del demansionamento, dall’esito finale della dequalificazione e dalle altre circostanze del caso concreto” (così: Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 8527 del 14.04.2011).
Tali orientamenti trovavano conforto nel disposto normativo del vecchio articolo 2103 Cod. Civ. e nell’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori (di identico tenore letterale).
Va aggiunto comunque che, sebbene la legge e le suddette decisioni prevedevano che l’articolo 2103 Cod. Civ. fosse norma imperativa, esisteva già prima della riforma un orientamento giurisprudenziale e dottrinale che considerava leciti i patti consensuali aventi come effetto il demansionamento, nel caso in cui sussistesse un interesse in tal senso da parte del lavoratore, ad esempio perchè si voleva evitare il licenziamento (per soppressione del posto di lavoro ovvero nel caso in cui il dipendente non fosse stato più capace di svolgere l’attività lavorativa).
In tema di onere probatorio per il danno da demansionamento del lavoratore
In caso di dequalifica, il datore di lavoro può essere chiamato a risarcire il danno subito dal prestatore, oltre ad essere condannato alla ricollocazione del dipendente al posto originario.
Il danno che ne può derivare può essere di carattere sia patrimoniale che non patrimoniale. Il primo sussisterà ovviamente nel caso in cui alla dequalifica abbia fatto seguito anche la diminuzione della retribuzione. Il secondo va invece identificato nel danno che a seguito dell’atto illegittimo sia derivato in capo al prestatore; a titolo esplicativo, potranno essere risarciti eventuali sofferenze o stress che ne siano derivati.
Quanto al profilo probatorio, nessun dubbio sussiste in ordine alla determinazione di quello di carattere patrimoniale, il quale sarà identificato nella differenza tra la retribuzione che spettava al dipendente sulla base del contratto di assunzione rispetto a quanto effettivamente corrispostogli.
In ordine al danno non patrimoniale, la situazione è un po’ più complessa, in quanto lo stesso deve essere provato nel suo esatto ammontare, non conseguendo in modo automatico dall’atto di dequalifica.
Di seguito si riporta la giurisprudenza ante riforma in tema di onere probatorio del danno non patrimoniale:
“Il danno alla professionalità non può considerarsi in re ipsa nel semplice demansionamento, essendo onere del dipendente dimostrare tale danno, fornendo, ad esempio, la prova di un ostacolo alla progressione di carriera” (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 172 dell’8.01.2014).
“È illegittimo il demansionamento disposto da parte del datore di lavoro, senza il consenso del dipendente, al solo fine dichiarato di evitare il licenziamento. Una volta accertato il demansionamento, onde determinare il risarcimento del danno, è possibile fare ricorso al criterio equitativo” (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 21356 del 19.09.2013).
“Il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, asseritamente derivante da comportamenti di mortificazione professionale del datore di lavoro (v. il demansionamento), non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo (art. 2059 c.c.).” (T.A.R. Marche Ancona, n. 630 del 13.09.2013).
“In merito al risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio che alteri le abitudini del lavoratore, gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Non è, in tal senso, sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno e del nesso eziologico con l’inadempimento datoriale” (Cassazione Civile, n. 13918 del 3.06.2013).
Le eccezioni al divieto di demansionamento previste dalla vecchia normativa
La giurisprudenza e la legge prevedevano le seguenti ipotesi di legittimità del demansionamento:
nel caso in cui ci fosse un interesse da parte del lavoratore;
nel caso in cui ci fosse stato un consenso tra le parti con modifica del contratto;
per mansioni marginali ed accessorie;
per brevi periodi di tempo (entro i limiti temporali previsti dalla contrattazione collettiva e comunque – in ogni caso – purchè non si fosse ecceduta la durata di 3 mesi);
nel caso in cui lo svolgimento di diverse mansioni fosse stato finalizzato a far acquisire nuove professionalità al lavoratore;
nel corso di procedure di mobilità gli accordi sindacali potevano prevedere che alcuni lavoratori fossero adibiti a mansioni inferiori (articolo 4, comma 11, Legge 223/1991);
Si osservi inoltre che sempre in giurisprudenza si è affermato che la tutela di cui all’articolo 2103 Cod. Civ. non è prevista per i lavoratori parasubordinati (Tribunale di Milano, addì 11.07.2013).
Come tutelarsi dal danno alla professionalità
Nel caso in cui tale demansionamento si verifichi, al fine di vedere tutelati i propri diritti il lavoratore potrà rivolgersi ad un legale oppure ad un Sindacato, i quali offriranno idoneo consulto ed eventualmente potranno consigliare le azioni esperibili per far cessare la condotta illegittima e per l’eventuale azione risarcitoria.